di Stefania Brancaccio
(Ti Lancio dalla Campania) Napoli 4 novembre 2025 – Non è un’analisi tecnica sull’intelligenza artificiale, ma una riflessione d’impresa e di fede.
Da anni mi chiedo quale posto abbia la coscienza nelle nuove tecnologie, e quale posto debba avere l’uomo dentro le proprie invenzioni.
Ho trovato nel Vangelo tre parabole che sembrano scritte per noi, oggi.
Viviamo un tempo in cui l’intelligenza sembra aver moltiplicato se stessa.
La chiamiamo artificiale, ma in realtà è profondamente umana: nasce dal desiderio di comprendere, di prevedere, di dominare la complessità. È il frutto di un’intuizione antica: la mente che genera mente. Eppure, proprio in questa prodigiosa capacità di calcolo, si nasconde una nuova forma di smarrimento.
Sappiamo tutto, ma non sappiamo più perché.
Siamo diventati sapienti di formule, ma analfabeti di senso.
Nel Vangelo, tre parabole ci restituiscono lo sguardo che abbiamo perduto.
La prima è quella dei talenti. L’Intelligenza Artificiale è come il talento affidato ai servi: non è un idolo da venerare, né una minaccia da temere, ma una responsabilità da far fruttare. Chi la sotterra per paura, nega la fiducia nel futuro; chi la usa per moltiplicare solo il proprio potere, dimentica che ogni dono è destinato a servire una comunità.
Il rischio non è nella macchina, ma nel cuore di chi la programma. È lì che si decide se il talento diventa strumento di bene o catena d’ingiustizia.
Ogni tecnologia è un’estensione della nostra coscienza: se la coscienza è retta, anche la tecnica sarà giusta; se è cieca, l’intelligenza si trasforma in inganno. L’IA, come ogni talento, domanda una restituzione: ci sarà chi l’avrà usata per moltiplicare conoscenza e cura, e chi per accumulare profitto e potere. È su questa differenza che si gioca il futuro del lavoro e della dignità umana.
La seconda è la parabola della Torre di Babele. Da sempre l’uomo sogna di toccare il cielo, e oggi lo fa con i chip, gli algoritmi e la lingua universale del codice. Ma la vera grandezza non è costruire più in alto, è imparare a comunicare in profondità.
A Babele non è Dio che confonde le lingue: è l’uomo che smette di ascoltare. Così accade anche oggi. Nella rincorsa all’onniscienza digitale rischiamo di perdere la pluralità dei volti e delle parole, la lentezza del dialogo, la fatica dell’incontro. L’Intelligenza Artificiale, se non custodita dallo Spirito, può trasformarsi in una nuova idolatria dell’uniforme.
Eppure la tecnologia potrebbe essere, se ben guidata, una Pentecoste rovesciata: un linguaggio che unisce e non separa, che traduce senza appiattire, che permette a chi è lontano di sentirsi vicino. Ma perché ciò avvenga, occorre un’etica della relazione prima ancora che una governance dei dati.
Poi c’è il seminatore. L’IA, come il seminatore evangelico, sparge dati e possibilità ovunque. Ma il terreno siamo noi. Se il cuore è indurito, il seme si perde; se è pieno di rovi, soffoca; se è libero, germoglia.
La vera rivoluzione tecnologica non avverrà nei laboratori, ma nell’anima: dipenderà da quanto sapremo coltivare la coscienza, il senso del limite, la custodia dell’altro.
Non sarà un aggiornamento del software a salvarci, ma un rinnovamento dello sguardo. Solo chi sa meravigliarsi può ancora generare innovazione che non disumanizza.
Ed è qui che ritorna la figura dell’imprenditore cristiano, non come tecnico o profeta, ma come artigiano del discernimento.
L’intelligenza costruisce, la sapienza orienta.
Una macchina può imitare la mente, ma non può imitare la coscienza. Può calcolare tutto, ma non può scegliere il bene.
A noi, che viviamo nel mondo del lavoro, dell’impresa, della responsabilità sociale, spetta custodire questa differenza: trasformare la potenza dell’intelligenza in strumento di fraternità.
L’imprenditore credente non teme l’innovazione: la benedice, se genera giustizia; la corregge, se genera disuguaglianza. Perché sa che la vera modernità non è costruire macchine più simili all’uomo, ma diventare uomini più simili a Cristo.
L’Intelligenza Artificiale potrà aiutarci a produrre meglio, a conoscere di più, a risparmiare tempo e fatica. Ma solo la Sapienza ci insegnerà che cosa vale davvero la pena di salvare.
E forse questa è la più grande sfida del nostro tempo: non capire quanto la macchina può fare al posto nostro, ma quanto noi vogliamo ancora fare per amore.
(Dispaccio di Ti Lancio della redazione di Trieste)


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